Ormai sono le nostre montagne di casa, dove torniamo volentieri, facilmente raggiungibili rispetto agli altri gruppi, uno scrigno che si erge dai boschi, aereo,
sempre molto panoramico con lunghe creste che ricordano un po’ i nostri Sibillini, ci regalano sempre belle emozioni in tutte le stagioni: gli Ernici.
Le nevicate dei giorni scorsi, anzi dell’intero Gennaio, quelle che solo la scorsa settimana e sempre sugli Ernici ci hanno rispedito a casa, promettevano scenari
onirici ma non davano certezza di riuscita, avevamo deciso di raggiungere le creste sommitali, la vetta più alta per intenderci, monte del Passeggio, attraverso la lunga valle di Femmina Morta.
Una finestra meteo favorevole e almeno nelle previsioni sfavillante andava colta al volo, il progetto aspettava da tempo, mancava solo la certezza che potesse
essere realizzato in questa stagione e per saperlo non dovevamo che provarci, per cui alle 8 eravamo già nei pressi di Prato di Campoli; un chilometro prima di
raggiungerlo, al primo accesso ben visibile a quota 1050 mt circa, nel piano di una ampia curva, una tettoia in legno con tanto di carta e di indicazione del tipo
“voi siete qui” non lasciava dubbi che fosse il giusto accesso.
Sulla sinistra si stacca un’ampia carrareccia chiusa più avanti da una sbarra, sale con poca pendenza, priva di neve, il primo chilometro è veloce; poi un leggero
strato ghiacciato, neve piuttosto vecchia, si spessisce nel giro di poche centinaia di mt., a quota 1320, un’ora dalla partenza e circa 3 km dopo, sulla sella di
Cacata del Lupo (già si chiama proprio così!), la valle devia decisamente a destra, inizia ad incastrarsi tra le montagne boscose e lo strato di neve inizia ad
essere importante. Marina rompe gli indugi e si “ciaspola”. Il mio atavico distacco, per non chiamarlo odio, verso le ciaspole è risaputo al mondo intero per cui
ho provato a resistere, per un chilometro, forse meno, oltre non sono riuscito, ho incominciato a rallentare e perdere terreno e quando all’altezza dell’incrocio col
sentiero che dalla sinistra arriva dall’abazia di Trisulti, 1300 mt circa, mi son dovuto arrendere e con rassegnazione, imprecando quasi, le ho calzate. Da lì in
avanti e per circa tre Km la valle si va via via stringendo, di fatto si cammina dentro il fosso delle Pratelle , un solco preciso che separa le due dorsali boscose
che salgono ripide a destra e sinistra; tre Km per 400 mt di dislivello, si sale più o meno lentamente, la neve ha seppellito tutto, rocce insolite per il letto di un
fosso, tronchi abbattuti, sembrano i segni di una devastazione dovuta probabilmente alla piovosa stagione scorsa; non ho mai percorso questa valle ma qualcosa mi dice
che gli eventi naturali l’abbiano un po’ incisa e modificata. Quasi a quota 1500 mt un primo salto roccioso si fa superare sulla destra e si rientra subito dopo nel letto
del fosso, qualche centinaio di mt ancora ed un salto più deciso e più importante restringe definitivamente la valle e consiglia di prendere a salire sul pendio a destra
per linee logiche che inventiamo; Il manto nevoso si fa importante e inconsistente, sprofondiamo sempre di più mentre il bosco si fa preciso, delineato nelle sue linee
verticali e fiabesco. Tagliando il pendio ritroviamo la traccia e le bandierine sugli alberi, si tratta sicuramente del sentiero che probabilmente abbiamo perso strada
facendo, scorre circa una cento metri sopra il fosso, non rimaneva che continuare a seguirlo. Intorno ai 1600 mt gli alberi si diradano e preannunciano l’ampio anfiteatro
delle Pratelle, una ampia candida conca fortemente ondulata che degrada dalle sommità delle creste; si intuiscono già il Ginepro e il Fragara, valli secondarie salgono
immacolate stringendosi via via che salgono di quota, non ci fosse tutta questa neve ad armonizzare i contorni sarebbero solo fossi che scendono dall’alto. Al centro,
isolato, semi sepolto, un incantevole rifugio sembra uscire dalle più belle immagini della montagna invernale. Solchiamo l’immacolato lenzuolo bianco, sprofondiamo una
ventina di centimetri ad ogni passo e ci sembra di profanare la perfezione assoluta fino a raggiungere il rifugio; le pareti ci danno protezione dal vento teso e freddo,
quando eravamo ancora nel bosco lo sentivamo ululare, usciti allo scoperto ci ha aggredito e ci ha soffiato addosso quella poca neve che riusciva a strappare al manto
semi ghiacciato. Sono passate circa tre ore dalla partenza, ci meritavamo una bella sosta al riparo dal vento, nelle braccia di un sole caldo, eravamo al centro di un
universo fatto solo di neve candida, il bosco terminava un paio di cento metri a valle, provavo a capire la posizione ma eravamo troppo incastrati per intuirla, sulla
destra spiccava la cresta alta sopra una lunga valle secondaria, candide rotondità e fossi poco profondi conducevano a quella cima lassù che faceva pensare al monte
Fragara; la piccola dorsale dietro il rifugio ci impediva di vedere il Ginepro, la sella del Brecciaro e la sua cima da cui prende il nome, ovviamente del monte del
Passeggio nemmeno l’ombra ma lo percepivamo, la quota di circa 1700 mt e l’ampia conca ci facevano perfettamente intuire lo scenario che avevamo intorno. Ci gustiamo il
primo momento di pausa della giornata frastornati da tanta luce e da un paesaggio da fiaba, eravamo lì per quello, lo avevamo cercato, voluto e ce lo stavamo gustando
fino in fondo, non pensavamo ci potesse costare tanta fatica ma faceva nulla, le cose belle e uniche hanno un prezzo che va pagato. Dovevamo però anche decidere il da
farsi e come continuare la giornata, un’occhiata all’orologio, abbiamo capito subito che eravamo in ritardo, era quasi mezzo giorno, siamo saliti lenti, avevamo solo
quattro ore e mezzo di luce piena davanti e da salire ancora quasi quattrocento metri prima di raggiungere il Brecciaro ed il monte del Passeggio e in una valle colma
di neve che ci avrebbe rallentato; tutto troppo per il tempo che avevamo a disposizione, eravamo già stanchi, salire il vallone anche se con le ciaspole è stata una
faticata che sentivamo già pesantemente nelle gambe, non avremmo certo potuto accelerare l’andatura da lì in avanti, se avessimo continuato col progetto iniziale correvamo
il rischio di arrivare alla macchina con le ultime luci del giorno se non di notte, andava sicuramente rivisto.
Di fronte a noi, dalla parte opposta di una valle secondaria che a sinistra saliva diretta in cresta, si alzava, ripida ma non troppo, una candida dorsale fino ad una
cimetta rocciosa, un salto di circa 150mt; non ricordavo il profilo della cresta principale, anche se l’avevo percorsa solo l’estate scorsa, da ciò che potevo intuire
dal basso e pensando di riconoscere nella cima più alta leggermente alla nostra sinistra il Fragara, mi stavo convincendo che compiva una leggera deviazione verso Nord,
come dire ci veniva leggermente incontro. Se oltre quella cimetta rocciosa non ci fosse stata una profonda sella, e tutto mi faceva pensare che non l’avrei trovata, la
cresta non doveva passargli lontana; ero ormai quasi certo che tagliando il percorso da lì saremmo sbucati a metà strada tra il Fragara e il monte delle Scalelle, un bel
passo avanti per accorciare il rientro ed un bel compromesso per non rinunciare completamente al nostro progetto iniziale. Cambiato su due piedi il piano per continuare la
giornata guardavamo quell’immacolata e tondeggiante dorsale, luccicante e sbattuta dal vento, non ci avrebbe regalato nulla e tutto lasciava presagire ancora neve molle ed
una faticaccia bestiale, gli siamo andati incontro fiduciosi con l’obiettivo di raggiungere la cresta il prima possibile.
Lasciamo il nostro comodo appoggio, come usciamo dal letto della valle e iniziamo a salire il pendio il vento prende a sferzarci senza pietà, i primi passi affondano ma
sono veloci, siamo ancora freschi, poi dobbiamo iniziare a darci il cambio per aprire la traccia; si sprofonda, impossibile dare continuità all’andatura; non arriviamo alle
roccette che già mi ritorna l’affanno, sono stato in crisi per tutto il vallone e non sto meglio ora, dannate ciaspole e dannata testa che non vuole soffrire; intuisce la
difficoltà Marina e prende a condurre, mi sorpassa ed inizia a battere la traccia, per un po’ la lascio fare ma in prossimità delle rocce voglio essere io a decidere dove
mettere i piedi, tratti scoperti immagino nascondano ghiaccio, mi piacciono queste situazioni e per un attimo dimentico la stanchezza, aridannata testa che decide da sola
quando ritrovare la voglia di fare.
Arriviamo alle roccette, momenti di cumuli più spessi, tratti di scoperto e pendenza che aumenta, nulla di impossibile e lentamente siamo sopra, dove riprende a salire un
calotta immacolata e tondeggiante che sembra non avere mai fine, al solo vederla le gambe mi si bloccano di nuovo; che palle che sono!!! Marina mi sorprende di nuovo, non
chiede nulla e continua al posto mio, lenta ma imperterrita sale senza indugiare un attimo, insomma mi traina, che bella che è!!!!
Salendo quella calotta all’apparenza interminabile gli orizzonti prendono forma, il rifugio là in basso è lontanissimo, lenti ma siamo saliti tanto, intima la traccia che
abbiamo lasciato alle nostre spalle e che interrompe la candida rotondità del versante, guardarla serpeggiare ci sembra un filo che ci tiene uniti al rifugio giù in basso;
le vette degli Ernici sono ora di chiara lettura, ancor prima di arrivare in cresta intuiamo di aver preso la giusta decisione e soprattutto di non aver sbagliato congetture;
siamo oltre il Fragara, prima del monte delle Scalelle, insomma già sulla via del ritorno, che improvvisamente e solo un’ora dopo le arcane previsioni fatte al rifugio,
sembrava breve e da godersi tutto. Arriviamo in cresta in meno di cinquanta minuti e nel frattempo si è fatta l’una del pomeriggio, ci affacciamo dalla parte opposta dove
il cielo terso permette un’infilata di montagne incredibile. Il Fragara sale sopra di noi, per un’illusione ottica amplificata dal manto nevoso sembra un tutt’uno con la
cresta che raggiunge il Deta, come altre volte detto da questa prospettiva incredibilmente simile alla nostra Sibilla; la valle Fragara scende verso la piana di Prato di
Campoli, oltre la dorsale boscosa di fronte l’orizzonte è chiuso dalle montagne del parco e dalle Mainarde, inconfondibile il profilo del Meta, a Sud, si erge isolata la
piramide del monte Cairo,
Non abbiamo più fretta, l’aver accorciato l’anello delle creste ci ha dilatato il tempo a disposizione; “cazzeggiamo” continuando sulla cresta verso le Scalelle, ci
concediamo anche una sosta nella sella che anticipa la sua cima in faccia agli Ernici “poveri”, la Monna, il Monte Ortara, il Crepacuore e più lontano il Viglio, come
sempre terra di nessuno, nel sottogruppo dei Cantari perennemente contesi tra Simbruini ed Ernici.
Raggiungiamo la piccola vetta del monte delle Scalelle alle 13,30, di là il versante inizia a scendere più ripido fino ad una corona di rocce qualche centinaio di metri
più giù; con le ciaspole non è facile continuare, si forma uno spesso zoccolo ogni una per due, la scivolata è sempre in agguato. Oltre la corona di rocce, dove ritroviamo
l’amica bandierina che sapevamo esserci, sappiamo di dover raggiungere il limite del bosco sulla destra, lì passa il sentiero estivo; qualche centinaio di metri ripidi e
difficili da percorrere, mi tolgo le ciaspole per rimetterle subito dopo, senza si affonda fino all’inguine; ancor prima di raggiungere il bosco cerchiamo le bandierine
sugli alberi, le troviamo subito e ci sentiamo al sicuro, ora basta seguirle fino a Forca Palomba dove il pendio si appiana in una grande sella e dove si inizia a scendere
sul versante opposto, verso Prato di Campoli, sono le 14,20. Le bandierine sui tronchi dei faggi sono ben disposte, con regolare distanza ci aiutano a scendere senza problemi.
Il sole nel frattempo si va nascondendo dietro lo sperone di monte Pontecorvo e crea suggestivi scenari dove ombra e luce si contendono lo spazio. I faggi, diritti e fitti
formano un suggestivo e solitario palinsesto, il cielo di un azzurro insolitamente intenso forma una calotta uniforme dove i rami spogli ci proiettano ricami onirici. Se non
fosse per la “caciara” delle nostre ciaspole a trionfare sarebbe il silenzio e l’assoluta solitudine; un momento intimo e stupendo. La neve rimane fin quasi alla piana,
qualche centinaio di metri prima della fine del bosco inizia ad assottigliarsi e nel giro di duecento metri sparisce lasciando spazio ad un tappeto di rugginose foglie,
dove i colori intensi dei crocus e bucaneve regalano macchie infinitesime di colore e illudono di una anticipata primavera. Il bosco dirada, altri trecento metri di prato e
siamo alla strada, per chiudere l’anello mancano quattrocento metri di nastro asfaltato, mentre la percorriamo noto la piramide del monte delle Scalelle, bianca oggi, mai o
poco visibile quando il bosco è nel suo rigoglioso splendore. Sono le 15,15 quando arriviamo alla macchina, non abbiamo realizzato il progetto ma lo abbiamo salvato, siamo
soddisfatti, molto soddisfatti, quasi 1000 sono stati i metri di dislivello superati in sette ore, 12 sono stati i chilometri percorsi dei quali quasi 8 con le ciaspole ai
piedi. Domani saremo stanchi e distrutti a leccarci le ferite, oggi siamo stanchi e felici, ma si è fatta l’ora di mettere qualcosa sotto i denti, via di corsa verso Veroli.